Tota nostra est

Non ho visto la puntata della settimana scorsa di Santoro. Ma ne ho viste abbastanza da quando è tornato in tv per immaginare come il nostro abbia gestito la cosa. Vale a dire confezionando un paio d’ore fatte per tranquillizzare chi già la pensa in un certo modo che tutto sta andando in un certo modo. La puntata di un paio di settimane fa sulla Sardegna era una cosa incredibile. Sono andato a dormire con la ferma convizione che il mattino dopo gli operai intervistati avrebbero fatto la rivoluzione e scacciato Berlusconi dall’Italia.
E invece.
Ma Santoro alla fine fa bene a fare quello che fa nel modo in cui lo fa.
Non è una rivelazione né uno scandalo dire che Santoro è vicino a Di Pietro (lo è dirlo nel modo in cui l’ha detto Cicchitto). In fondo è un suo diritto. E ci sono due modi di concepire il pluralismo: si può desiderare che le trasmissioni siano assolutamente e idealisticamente equilibrate (che mi sembra impossibile) o si può accettare che ci siano diverse trasmissioni con diversi orientamenti e che da questa pluralità uno sintetizzi quello che ritiene più corretto.
Per altro, se nella trasmissione si sono diffamate persone e/o organizzazioni, ehi, le querele esistono per quello. Ne sono arrivate dai diretti interessati? Sì, no? Boh.
Per contro, immagino che andare in giro a svegliare gente che dorme in macchina chiedendo "perché dorme in macchina?" o "come mai non avete mangiato? Non avevate fame?" (per tacere del vagolare tra le rovine brandendo orsacchiotti di peluche e preoccuparsi di organizzare collette per il Duomo con i cadaveri ancora caldi) sia grande giornalismo

Quello che non stupisce è che il terremoto sia diventato una buona scusa per ribadire una volta di più che non si disturba il manovratore. Che il giornalismo dovrebbe fare vedere solo le cose belle (tecnicamente si chiama "propaganda", allora). E che mettere in dubbio la perfezione della "macchina dei soccorsi" (espressione da abolire insieme a "gara di solidarietà") è disfattismo. Ma se la macchina dei soccorsi fosse perfetta, l’altro giorno non avrei visto un medico volontario dire che fa dei turni di 16 ore. S-e-d-i-c-i ore. Perché poi magari se dici che non tutto va benissimo sei costretto anche ad ammettere che è perché nessuno aveva approntato nulla nonostante ci fossero gli estremi per stare sul chi vive (e senza radon, che pure è una strada interessante in prospettiva; semplicemente erano mesi che la terra tremava). E allora poi che figura ci facciamo?
Invece, andiamo avanti, tanto siamo bravissimi a metterci una pezza. Se diventassimo più bravi a farci degli sbreghi meno grossi sarebbe una gran conquista.

A farne le spese, fino a un certo punto perché in fondo è una specie di medaglia, è Vauro.
Ora, Vauro andrebbe abolito dalla tv per il semplice fatto che le vignette lette e spiegate fanno cagare.
Che lo si faccia saltare per una vignetta assolutamente sobria è indice di ridicolaggine.
Opinionisti caricati a molla stanno già riempendosi la bocca di "limiti e confini della satira". Appena smetto di digitare sento i loro ingranaggi che si caricano, in lontananza.
Altri diranno "non fa ridere", "non si può fare comicità sui morti" o altre cose del genere.
Ma lo scopo della satira mica è far ridere. Tralasciando la voce di Wikipedia, che al momento è bollata come non neutrale perché "rifà eccessivamente alle visioni del comico Luttazzi, e presenta solo la satira antireligiosa parlando indefinitamente di censura", mi butto sul caro vecchio De Mauro online:

sà|ti|ra s.f.
TS lett. 1a composizione poetica che elabora con intenti moraleggianti e critici, aspetti, figure e ambienti culturali e sociali, con toni che variano dall’ironia, all’invettiva, alla denuncia: le satire di Orazio, di Ariosto | l’insieme dei componimenti satirici di un poeta, di una letteratura, di un’epoca: la s. latina, la s. moderna | il tono, il carattere che informa tali componimenti: la s. pungente di Giovenale 1b genere letterario cui appartengono tali componimenti
2 CO estens., scritto, spettacolo o anche comportamento, discorso e sim., che mette in ridicolo comportamenti o concezioni altrui: s. di costume, s. politica; fare oggetto di s., fare la s. di qcs., mettere in s.

Non mi sembra che ci sia scritto che la satira debba far ridere. Nel caso di Vauro la vignetta (e altre simili) non vuole far ridere. Collega una proposta di legge che potrebbe contribuire all’abusivismo edilizio con una tragedia causata anche dal fatto che negli anni passati si è già costruito a cazzo. La risata nasce, se nasce, come reazione a una specie di, boh, chiamiamolo imbarazzo.
Che poi nel senso comune "satira" sia sinonimo di "comicità" è tutto un altro paio di maniche. Ma visto che come diceva Quintiliano la satira è un genere letterario completamente originale delle terre in cui viviamo, pretendo che quando parliamo di satira lo facciamo con un minimo di attinenza al suo senso originale.

Let ‘em eat cake, she says

Non amo guardare Santoro, però devo dire che è sempre istruttivo per rendersi conto della pessima, pessima idea che hanno del loro ruolo molti politici italiani. 

Per esempio, ieri sera c’erano Michele Lupi e la Santanché.
Si parlava di piano casa, cementificazione delle coste in Sardegna, "crisi" e via discorrendo.
C’era Ferruccio Sansa, giornalista della Stampa, che raccontava alcune cose sul fatto che in Liguria i progetti di costruzione di nuove case sulla costa sono stati approvati indifferentemente da giunte "di sinistra" e "di destra", mentre ci sono qualcosa come 65.000 case sfitte in regione. A un certo punto Lupi, fiancheggiato dalla Santanché (secondo la quale le case sfitte sono tutte seconde case per le vacanze, perché si sa, in Liguria non c’è mica gente che ci vive e lavora, è solo una lunga serie di spiagge e paesini), lo ha interrotto chiedendogli: "ma lei, che fa il giornalista, trova solo cose brutte, in Italia? Non potrebbe parlare di quelle belle, invece?".
Sansa, invece di alzarsi e tirargli un pugno in faccia come sarebbe stato appropriato, se l’è cavata con una battuta sul fatto che non scrivendo per Playboy non deve occuparsi di cose belle. Decisamente, un pugno in faccia sarebbe stato più appropriato.
Poco dopo, Santoro, tanto per fare un po’ di caciara, butta allo sbaraglio due ragazzi di un comitato che si oppone alla costruzione di un grattacielo progettato da Renzo Piano a Torino. La questione è effettivamente spinosa e forse non adatta a venire liquidata nei cinque minuti che Santoro concede, perché c’è stata qualche tempo fa una discussione sull’accuratezza delle proiezioni fatte dal comitato di opposizione sull’impatto dell’edificio sulla skyline e poi il tema di come far convivere nuove costruzioni con il pre-esistente è sempre interessante e taglia trasversalmente architettura, sociologia e urbanistica. Ma tanto, senza una foto, un disegno, una cartina, una contestualizzazione, finisce con la Santanché che interrompe a muso duro il ragazzo che stava parlando (dandogli del tu) accusandolo con l’arroganza che potete immaginare benissimo di essere contrario a tutto, che non ha capito nulla, che ben venga un simbolo per Torino ("e la Mole, scusi?"), che sono vecchi, che basta, che palle, che il passato che non passa e il futuro che non futa. A un certo punto ho scollegato mentalmente il contenuto contingente di quello che diceva e mi è rimasta l’essenza della cosa. E l’essenza della cosa era questa.
Una persona che, per meriti dubbi, fa parte (marginalmente, visto che La Destra alle elezioni ha preso schiaffi e il suo nuovo movimento è un clone di Forza Italia pronto a essere assorbito dalla casa-madare) dell’élite che è la classe politica del Paese stava esprimendo un’insofferenza per il fatto che delle persone che non appartengono a quell’élite esprimevano un dubbio e delle opinioni in merito a scelte che riguardano il luogo in cui vivono. Un’insofferenza che, per quello che mi riguarda, appartiene (dovrebbe appartenere) più che ai nostri tempi al mondo per reazione al quale scoppiò la Rivoluzione Francese. O al mondo della Restaurazione, se preferite.
Mi sembra che sempre di più chi ha dei ruoli di potere pubblico viva con insofferenza le critiche che vengono da chi dal potere è escluso, da chi ha delegato con il voto un potere che dovrebbe essere temporaneo. Mentre invece non è forse sbagliato, se usato con parsimonia, il termine "casta" che Rizzo e Stella hanno applicato alla classe politica.

Un altro esempio, dall’altra parte. Il Partito Democratico si è riunito a congresso.
Tra gli interventi ha avuto un certo successo, in rete, quello di Debora Serracchiani. Un’avvocato di Udine, giovane per la media della politica (38 anni), sconosciuta fino all’altro giorno, che ha messo il dito nelle piaghe del partito con una certa precisione, grinta e capacità oratoria. Sono pronto a scommettere che in quella che una volta si sarebbe chiamata "base" del Partito Democratico (che esiste, nonostante i suoi leader) di Debora Serracchiani ce ne siano molte e molti. E il fatto che lei abbia fatto notizia mette tristezza. Perché nell’assemblea di un partito che è uscito sconfitto dalle elezioni e non è riuscito in un anno intero a mettere insieme una politica di opposizione non dico efficace (che i numeri sono quelli che sono) ma coerente e sostenuta unitariamente, nell’assemblea di quel partito gli interventi lucidamente critici dovrebbero essere la norma, non un’eccezione. E invece il PD è semplicemente questo bizzarro moloch a due teste, attraverso il quale i pezzi grossi cercano di mantenere posizioni di potere e prestigio acquisite in precedenza e, in questo momento, pararsi il culo in vista della disfatta alle Europee.
E c’è un problema sistemico, di fondo. Perché se io alle elezioni avessi voluto votare una Debora Serracchiani non avrei potuto. Perché ovviamente prima di lei c’erano tutti quelli che dovevano avere un seggio. E solo dopo gli outsider. Con un meccanismo che sa di ricatto: "ok, se vuoi che i tuoi sfigati vadano in parlamento devi votarci, perché solo se ci votate in tantissimi ce la fanno". Con il risultato che un sacco di gente è andata a votare per mandare al parlamento la Binetti. O qualche altro pezzo grosso del partito, con attenzione alle quote DS e Margherita.
Con un sistema così, chiaro che non si va da nessuna parte.
Che il rinnovamento della classe politica sarà sempre relativo, perché il tuo salire di grado dipende sempre da chi sta sopra di te. Che ti sceglie se in te vede qualcuno che gli è simile. Come nell’università, si premia non tanto il merito quanto le capacità relazionali (per usare un eufemismo), di adeguarsi a un modello, a dei meccanismi.
Mobilità sociale, addio.
Gli ultimi saranno gli ultimi, se i primi sono irraggiungibili. 

Più la politica mette le mani sull’informazione, più i giornalisti che raccontano solo "cose brutte" verranno lasciati a casa o le racconteranno solo a chi già le conosce.

Meno informazione vuol dire meno consapevolezza.
Vuol dire essere un po’ meno cittadini e un po’ più sudditi. E che siamo sudditi, poi, ce lo dice anche la legge che di fatto vuole rendere nullo qualunque testamento biologico, rendendo il corpo una proprietà dello stato.
E meno informazione vuol dire anche gettarsi acriticamente ad abbracciare una fede politica piuttosto che un’altra, allo stesso modo in cui si tifa Juve o Lazio.

Fuggite, sciocchi!

La tratta dell’Alta Velocità ferroviaria tra Bologna e Firenze è stata costruita dalla ditta RockSoil, di proprietà della famiglia dell’ex ministro Lunardi.
Gran parte del percorso si svolge in galleria, visto che tra Bologna e Firenze ci sono gli appennini.
Esistono delle norme di sicurezza, per le gallerie: se non c’è una galleria di servizio – ovvero una galleria parallela più piccola usata per l’eventuale evacuazione in caso di incidenti o incendi – ci devono essere delle aperture sui lati che conducano a una via di fuga ogni 250 metri. Si tratta di una normativa dell’Unione Europea.
Che in Italia non abbiamo recepito, sostituendola con un decreto del 2005 a firma dello stesso Lunardi che le mette a "non più di 4 chilometri" l’una dall’altra. Stando a quando dice la giornalista di Metro Stefania Divertito (dal cui articolo di oggi vengono queste informazioni) sul progetto della galleria più lunga ne risultano anche di distanti 5 km tra loro.
I progettisti dicono che il sistema è modernissimo ed efficientissimo, che ci sono sistemi di frenata automatica che in caso di incidente faranno fermare il treno esattamente davanti alle finestre di uscita. E che il deragliamento è un’eventualità "talmente trascurabile da poter essere considerata impossibile".
Io spero con tutto il cuore che sia così.
E che prima o poi non ci tocchi leggere di incidenti in galleria con gente che si deve fare fino a due chilometri a piedi in una galleria invasa dal fumo.

Il reale è l’immaginario

Foto 69

Questa la metà inferiore della prima pagina di Metro, giornale gratuito, oggi.
Sotto, si parte parlando del fatto che una puntata della nuova stagione dei Simpson in onda negli USA parte dallo sfratto di Homer e famiglia per l’impossibilità di pagare il mutuo e poi, con la massima naturalezza, si cambia discorso: "Intanto in Italia aggiungere stanze, alzare soffitti, coprire terrazze sarà più semplice. Il Piano casa del governo punta a rilanciare l’economia stimolando l’edilizia".

La cosa curiosa è che il decreto-casa del governo sembra assolutamente uscito da una puntata dei Simpson (pensate al riassunto sulla guida tv: "Approfittando di una legge pensata dal sindaco Quimby per dotare la sua villa di un’ala destinata alle sue amanti, Homer decide di abbattere casa sua per ricostruirla più grande…")

Poteva Durare?

No.
E il peggio, a livello di conseguenze politiche, deve ancora venire.

Parliamo di Sanremo, cheèmmeglio.

Dio deeeeeelleeee cittàààààààààà

Se si mettono insieme età, volume e qualità della produzione (testi e disegni) diventa assolutamente logico sostenere che Leo Ortolani sia il più grande autore di fumetti italiano vivente. Uno che appena metteremo le come nella giusta prospettiva ci renderemo conto che può stare tranquillamente sullo scaffale dei Grandi Canonizzati (Pazienza, Bonvi, Magnus, Pratt – non a caso tutti morti).
Il personaggio a cui è legato il nome di Ortolani è Rat Man, che nato come parodia di Bat Man all’epoca del primo film di Tim Burton è poi diventato nella seconda metà degli anni novanta titolare di una serie che, mentre fa ridere fino alle lacrime, sta costruendo un mondo supereroistico – e non solo – profondo e complesso, albo dopo albo.
Per conferme, il numero attualmente in edicola, “Ratto”.

Uno dei meccanismi comici con cui Ortolani si trova più a suo agio è quello di fare interagire Rat Man – che è un idiota – con oggetti inanimati che lui tratta come se fossero dotati di vita. Rat Man è stato fidanzato con una bambola gonfiabile. Parla con Piccettino, il suo orsacchiotto di pezza al quale manca un occhio (gliel’ha strappato lui, per fargli capire che cosa gli succederebbe se rivelasse la sua identità segreta). Nell’ultimo numero cerca di ridare fiducia in sé a un Cristo crocefisso di due metri.

Ecco, io quando leggo di Formigoni che dice che Eluana Englaro ha una vita piena, quando sento “la clinica dove Eluana (Englaro, porcapupazza, non è amica nè tua nè mia, giornalista del cazzo ndr) ha vissuto fino a oggi”, quando ci sono quelli che urlano “Eluana svegliati”, io penso a Rat Man che parla con Piccettino.

Fucktion

"Ecco il blog dei cattivi poliziotti".
Nel momento in cui scrivo, la terza notizia di Repubblica.it è un articolo di Carlo Bonini (con commento di Gabriele "dio quanto sono sensibile*" Romagnoli), con le trascrizioni di una chat di poliziotti che discutono dei "fatti di Genova". Il sommario dice "in un libro i duri delle forze dell’ordine". C’è pure un pdf. Intanto clicco sull’articolo. Al primo paragrafo non virgolettato c’è qualcosa che non va:

Clic. Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia.

Apro il commento di Romagnoli, parla di un libro chiamato Acab. Guardo il pdf, si direbbe un Einaudi.
Cerco su Google. Trovo quello che devo trovare e m’incazzo.

Il lavoro di inviato di punta svolto da anni per Repubblica è sempre stato alla base dei libri d’inchiesta di Carlo Bonini, come Guantanamo o Il mercato della paura. In parte è così anche per Acab, come testimoniano i numerosi articoli apparsi negli ultimi mesi sul quotidiano incentrati sulla violenza negli stadi e sulla reazione della polizia, ma Acab è più di un libro d’inchiesta: i nomi, le persone coinvolte, i fatti sono tutti veri, spesso notissimi (dal G8 di Genova all’omicidio Raciti) e documentati con la consueta meticolosità, ma l’impianto narrativo è quello di un romanzo.

Non so di chi sia la responsabilità, ma se in un libro non ho alcun problema ad accettare la commistione di vero e verosimile, ne ho molti di più ad accettare che un quotidiano pubblichi un testo che è un misto di realtà e fiction in modo indistinguibile rispetto alle notizie ordinarie, senza mettere alcuna forma di avviso al lettore, fosse anche una semplice parafrasi del testo della quarta che ho riportato qui sopra.
Naturalmente sorvolando sulla pateticità dell’inserire come terza notizia sul proprio sito lo spot al libro scritto da un proprio giornalista che però poverino, pubblicando per una piccola casa come Einaudi ha sicuramente bisogno di tutto il supporto possibile per avere un po’ di visibilità.
Poi probabilmente lo faranno recensire a D’Avanzo, per avere un parere il più spassionato possibile.

Il futuro era un quarto d’ora fa


Premessa

La puntata speciale di "Che tempo che fa" dedicata a De André è stata un po’ così.
Del resto lo si poteva capire dall’inizio, con intervista a un Renzo Piano in modalità cialtrona, che si è premurato di infilare nel minor tempo possibile il maggior numero possibile di stereotipi su quella Genova che non esiste davvero, ma lo stereotipo da cartolina che hanno in mente i milanesi. Con un allegro sfrondone topologico annesso (Via del Campo mica "porta al mare", corre più o meno parallela alla costa). E poi vabbeh, le cover che lasciano un po’ il tempo che trovano (strepitoso però Luca Bizzarri travestito da Vinicio Capossela). Ho spento quando Maggiani ha sfondato il cialtronometro, prima precisando piccato che il genovese è una lingua e non un dialetto (tutti quelli che noi chiamiamo "dialetti italiani" sono in realtà lingue, da un punto di vista linguistico), poi dipingendo un’immaginaria Genova in cui tutti parlano il genovese in ogni occasione. Forse Maggiani e i suoi amici, perché al di fuori della cartolina, il genovese è una lingua sconosciuta alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini.

Il punto

Ma in realtà già prima il cialtronometro aveva subito danni gravissimi. Vale dire quando, parlando delle iniziative collegate alla trasmissione, uno degli autori ha detto "poi c’è anche una cosa su Facebook, che non so cosa sia, ma so che c’è qualcosa anche lì". Fazio ha risposto "ah, io ne so ancora meno", grandi sorrisi, grande complicità, grandi teste di cazzo.
Fai un programma che vuole parlare "dei tempi".
Sei pagato, per farlo. Tu e quell’altro lì.
Non puoi fare quello che trova fico ignorare (o far finta di ignorare) Facebook perché quelle robe dei computer, di internet non ci si capisce niente. Non puoi continuare a pensare a internet come se fosse un pianeta alieno, una bizzarria dietro alla quale perdono tempo tipi strambi.
Non puoi per il semplice fatto che oggi internet fa parte della nostra vita quotidiana, al pari, boh, dei cellulari. E se ti arroghi la pretesa di parlare del qui e ora, questo snobismo neo-luddista è francamente ridicolo e insopportabile, oltre che magari un tantinello offensivo verso quella parte della tua redazione che lavora per gestire i contenuti del sito della tua trasmissione. Perché dietro la finta aria da “sono vecchio” che si assume quando si ammette di non saperne nulla si lascia intendere che la si vede come una moda strana che poi magari un giorno passa, tipo la macarena o i Pokemon.
E al contrario è ugualmente fastidioso l’atteggiamento sciccosissimo della principale concorrente di Fazio e dei suoi, la Bignardi, che invece in ogni puntata non manca di far passare il messaggio di quanto sia figa lei che li conosce i blog, la rete, maispeis, feisbuk (e che addirittura è sposata con una blogstar). Semplicemente, è un’ostentazione che è solo l’altra faccia di Fazio e i suoi; non sei figo se conosci e usi gli strumenti del tuo tempo, sei semplicemente una persona che ci vive, nel suo tempo. Quindi è come se ti bullassi di sapere usare un cellulare per mandare gli sms. O di sapere che si attraversa la strada solo quando il semaforo è verde.
E non si tratta nemmeno di aderire al determinismo tecnologico che Grillo predica da Sant’Ilario, per cui la Rete è intrinsecamente buona e il suo utilizzo permetterà di sanare ogni male: come in ogni cosa, il 90% di internet è spazzatura. E forse è una stima ottimistica.
Ma intanto esiste. E non è, come si diceva una volta, una “realtà virtuale”. Facebook (che in Italia, ve ne sarete accorti, ha avuto un lievissimo successo negli ultimi mesi) è quasi il simbolo di una rivoluzione: non si va più “in rete” con un nickname, ma con la propria faccia, il proprio nome, la propria storia. E sta facendo scoprire a persone che probabilmente mai l’avevano sospettato prima che immettere contenuti in rete è una cosa semplice, non un procedimento esoterico accessibile solo a smanettoni incalliti (o peggio ai “giovani” che, si sa, imparano in fretta). Il che è un fenomeno interessante, perché è la prima volta che un servizio del genere in Italia raccoglie cifre veramente da fenomeno di massa (Second Life fu una roba che spinsero più che altro i giornali, un paio di anni fa; ed è sintomatico che SL, già da quello che il nome implicava, fosse l’esatto opposto di Facebook). E penso che se ti occupi di costume e di cultura dovresti tenere più di un occhio aperto su quello che accade intorno a te. Magari anche per parlarne male, per dire che non ti è piaciuto, che lo trovi inutile. Ma devi sapere di che cosa si tratta.

Digressione

Un esempio virtuoso l’ho trovato un quarto d’ora dopo tra le pagine di un libro che ho iniziato. Il libro si chiama Domani niente scuola, l’autore è Andrea Bajani, il tema sono gli adolescenti: Bajani (classe 1975) si è aggregato alle gite scolastiche di tre licei, uno di di Torino, uno di Firenze e uno di Palermo per raccontare le sue impressioni.
Prima di partire, negli incontri con i ragazzi, ha scoperto che usano Microsoft Messenger per comunicare tra loro e ha deciso di installarlo e lasciare il suo contatto “per vedere l’effetto che fa”.
Non so se davvero Bajani non aveva mai usato prima servizi di IM, ma la sua descrizione “ingenua” della vita su msn è ottima. Si capisce che prova orrore per quell’inferno in formato digitale che è msn in mano a degli adolescenti (gif animate di dimensioni inconsulte che sostituiscono non solo gli acronimi o gli smiley ma spesso anche singole lettere o dittonghi, indiscriminatamente, soprattutto), ma allo stesso tempo cerca di capire le abitudini e la logica di chi lo usa e di spiegarle a chi non ne sa niente. E soprattutto lo fa dopo avere provato, dopo essersi bagnato i piedi in quell’inferno.
Avesse scritto “i ragazzi usano msn per comunicare, ma io non ho la più pallida idea di che cosa sia”, avrebbe fatto la figura dello scemo o, peggio, di quello che non sa o non vuole fare il lavoro per cui è stato pagato.
E che fastidio se, alla Bignardi, avesse scritto “i ragazzi usano msn per comunicare. Come, non lo conoscete? Ma è il sistema di chat più usato dai giovani! Aggiornatevi!”.
O alla Grillo, esaltando msn come alternativa agli sms, che gliela mettiamo in culo alle compagnie telefoniche dei cellulari, che in Svizzera con msn ci fanno le elezioni, che è una cosa rivoluzionaria di cui nessuno vi parla perché vi vogliono tenere all’oscuro.
Oppure con toni apocalittici di quelli che internet, i pedofili, la pornografia e una volta qui era tutta campagna.

Concludendo

Ecco, quando penso a come si parla di solito di internet in Italia (altrove non lo so) mi sembra che le “derive” sopra descritte siano troppo usate come punto di vista. Che si parli ancora di internet come di qualcosa di avveneristico e futuribile, quando in realtà è semplicemente parte dell’esperienza quotidiana di milioni di persone ormai da più di qualche anno e dovrebbe diventarlo sempre di più. Sempre che leggi deliranti, come quella che dobbiamo al caro Pisanu che costringe a registrarsi con tanto di documento di identità se ci si vuole connettere da un luogo pubblico come un internet point, segando così lo sviluppo delle reti wi-fi, e la titanica arretratezza delle infrastrutture di mamma Telecom non si mettano in mezzo ancora più di quanto già non stiano facendo per rendere il tutto più difficile.

ology

La "Missione della Chiesa di Scientology" davanti alla quale passo tutti i giorni andando e tornando dal lavoro ha fatto l’albero di Natale.
(Spero sempre che un giorno o l’altro mi fermino, per poter rispondere cortese "Ah no, mi spiace ma preferisco Heinlein")
(Nel frattempo, fuori dalla finestra c’è più solo un muro bianco di nebbia. Capace che siamo finiti a Ravenloft)

Dear Mr. Murdoch

Rupert Murdoch è un mostro.
Non fisicamente. Murdoch è, coerentemente, l’incarnazione dell’uomo d’affari spregiudicato.
Possiede allo stesso tempo il Sun e il Times di Londra. E MySpace.
Non si è fatto scrupoli di prendere la cittadinanza turca per aggirare una legge che impedisce gli investimenti di stranieri nel paese.
Ha organizzato alcune delle sue aziende con una struttura che permette di minimizzare le tasse da pagare.
Mette i suoi giornali e le sue tv a servizio della parte politica dalla quale pensa di poter ricavare più vantaggi.
A febbraio del 2003, il Sun arrivò addirittura a pubblicare un numero speciale in Francia con scritto in copertina "Chirac è un verme", per dare addosso al fatto che Chirac non aveva intenzione di attaccare l’Iraq sulla base di palle messe in giro da Carlo Rossella (per farla breve).
All’inizio degli anni novanta Roger Taylor ha ringraziato Rupert Murdoch con una lettera aperta in forma di canzone, che si conclude con la pregevole battuta "sei molto meno simpatico di Attila":

(e stiamo parlando di un tizio che con la sua band non si fece scrupoli di andare a suonare in Sud Africa in pieno apartheid per un pubblico di soli bianchi)

Oggi, rispettando le antiche tradizione italiche di affidare la propria libertà a signorotti stranieri da contrapporre ai signorotti locali, Beppe Grillo si dichiara pronto a supportare Rupert Murdoch.
Ma sarebbe sbagliata prendersela con il tizio di Savignone. Lui fa il suo mestiere. Deve tenere alta l’attenzione su di lui e per farlo si deve attaccare a tutto, essere sempre pronto, anche a costo di dire minchiate galattiche (vedi la BioWashBall) a occupare il centro del palco.
Dovremmo iniziare a prendercela con i suoi fedeli più accaniti, quelli per dire che si sentono liberati, moderni e incorruttibili, perché hanno imparato a pensare "è vero perché l’ha detto il blog di Beppe Grillo" invece che "è vero perché l’ha detto la tv".
Al primo che sento dire "Murdoch è un imprenditore vero", cazzotto sui denti.

a.

ps: con tutto che il conflitto di interessi esiste e fa sì che, inevitabilmente, qualunque cosa fatta in ambito dei media sia aperta alle più orribili interpretazioni. Onestamente, preferisco che si recuperino dei soldi aumentando l’Iva di Sky che non tagliando da altre parti. L’unica cosa, mi chiedo se il cittadino puà scegliere, ovvero: se io ho un abbonamento e decido che per l’iva al 20% mi costa troppo, posso rescindere in maniera indolore? Temo di no, ma vorrei sbagliarmi.

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